Il dragamine giapponese contro l’U-Boot

Il protagonista della nostra storia era il peschereccio Hakata Maru 3, diventato poi la vedetta-dragamine G32 della Regia Marina

9 January 2024 | di Paolo Ponga

A volte la storia ci mette di fronte all’incrocio di destini, all’incontro di uomini che si affrontano nelle avversità di una guerra, a macchinazioni che sembrano create da un fato avverso. Ai subacquei è talvolta consentito toccare con mano ciò che rimane di questi scontri. Una di queste storie riguarda un peschereccio oceanico giapponese che si trovò di fronte, più di una volta, una terribile macchina da guerra germanica, comandata da uno degli assi della Kaiserliche Marine.

La Prima Guerra Mondiale ebbe la caratteristica di essere una guerra di posizione. Gli eserciti che si fronteggiarono tra il 1914 e il 1918 combattevano terribili battaglie per sfondare le difese avversarie e irrompere nel territorio retrostante, spesso senza riuscirci. Simbolo della Grande Guerra sul fronte terrestre furono infatti le trincee, orrende fosse dove gli uomini vivevano come ratti nel fango, sotto l’acqua e il sole. In realtà, come affermano molti storici, la situazione non fu poi così diversa sull’acqua, dove un enorme impiego di mine, sistemate in particolari zone di mare, impediva il transito di navi militari e mercantili, che portavano la linfa vitale degli approvvigionamenti per la sopravvivenza e la continuazione dello scontro bellico.

La guerra sul mare era diversa per le condizioni di vita ma non per la paura, che era costante anche qui. In alcune aree l’Adriatico era totalmente minato, tanto da rendere estremamente pericolosa la navigazione e da farne quasi un bacino chiuso. Questa circostanza era però comune anche in altre acque, vista la posa effettuata da navi di superficie e anche da sottomarini costruiti appositamente, come i tedeschi classe UC. La Regia Marina si trovò quindi di fronte a un compito gravoso, per il quale non era attrezzata: rendere sicuri il traffico marittimo e i convogli dalle torpedini subacquee. Mancava infatti di naviglio costruito appositamente, come dragamine, o di unità idonee alla trasformazione per tale utilizzo.

Per questo motivo, nel 1916, acquistò una flottiglia di pescherecci oceanici dal Giappone, del quale era alleato. Erano 47 unità munite di apparato motore a vapore che vennero contraddistinte con la sigla G e il numero da 1 a 47. Di queste, cinque andarono perdute durante la Grande Guerra, quattro vennero poi adibite ad altri usi, mentre dieci combatterono anche durante il secondo conflitto mondiale, di solito utilizzate come piccole cannoniere. Delle rimanenti non sono note le vicende post-belliche.

L’Hakata Maru 3

Il protagonista della nostra storia era il peschereccio Hakata Maru 3, diventato poi la vedetta-dragamine G32 della Regia Marina. Hakata era un tempo una città mercantile giapponese che venne in seguito inglobata dalla più grande Fukuoka, di cui ora è il distretto commerciale. La parola Maru, che molto spesso accompagna il primo nome di una nave civile nipponica, non ha un’origine e un significato certi ma è probabilmente legata alla superstizione tipica dei marinai di tutto il mondo. Il significato letterale è “cerchio” e con tutta probabilità la sua presenza riflette un’antica tradizione che rivolge alla nave l’augurio di viaggiare per il mondo ma che poi possa fare il “giro” che la riporti a casa sana e salva.

Costruito nei cantieri Osaka Iron Works di Sakurajima nel 1911, l’Hakata Maru 3 era lungo 38,15 metri per 6,78 di larghezza, aveva un dislocamento di 425 tonnellate ed era dotato di un motore a carbone di 400 cavalli di potenza che lo poteva spingere fino a 12,5 nodi di velocità massima. Giunto in Italia, venne dotato di 2 cannoni da 57 mm e di un sistema per il dragaggio delle mine ancorate, ovvero quelle fissate sul fondo tramite un peso e dei cavi. Quest’ultimo era costituito da due apparati a forma di aeroplano, con ali anteriori e una coda nella parte posteriore, che venivano rimorchiati ed erano muniti di una seghettatura per tagliare gli ormeggi delle mine, che, una volta giunte in superficie, venivano fatte saltare in aria.

A bordo si trovavano un ufficiale e 19 uomini dell’equipaggio, che facevano un lavoro apparentemente tranquillo e costante davanti alle coste della Toscana ma sempre in balia dei pericoli della guerra e del loro compito. Ogni tanto la piccola nave veniva destinata anche a compiti di scorta, come il 23 dicembre 1917, quando vicino a San Vincenzo stava scortando, insieme alla torpediniera 54 AS, il grande piroscafo Caboto di 4418 tonnellate, di ritorno da Calcutta e diretto a Genova. Sulla loro strada si trovava però uno dei più temibili lupi del Mediterraneo, a caccia di una preda da affondare: il sommergibile tedesco UB 49 comandato da Hans Joachim Wilhelm Ernst von Mellenthin.

Hans von Mellenthin

Parliamo prima dell’uomo, la cui storia potrebbe essere narrata in un film. Von Mellenthin nacque il 25 marzo 1887 da una famiglia nobile della regione tedesca della Pomerania, non lontano dal Mar Baltico e ora in territorio polacco. Intrapresa la carriera militare, entrò come Sea Kadett nella Marina del Kaiser il 1º aprile 1906 e venne poi destinato alla Prima Divisione Torpediniere. Allo scoppio della Grande Guerra fu inviato a Costantinopoli come ufficiale silurista, inquadrato nella Marina Ottomana e imbarcato sull’incrociatore-torpediniera Berk-i Satvet, con il quale partecipò al bombardamento del porto russo di Novorossijsk, nel Mar Nero, durante il quale vennero colpite diverse navi nemiche, e poi alla scorta del trasporto truppe verso Trabzon e il fronte.

Quando l’incrociatore urtò una mina e si fermò per riparazioni, von Mellenthin venne promosso comandante di una torpediniera, con la quale si distinse nella battaglia dei Dardanelli contro gli anglo-francesi, ottenendo diverse decorazioni al merito da parte del sultano turco. Nell’agosto 1915 tornò in Germania, a Kiel, dove iniziò l’addestramento per diventare comandante di U-Boot. Navigò sull’UB 1 e venne promosso Kapitanleutnant il 13 luglio 1916. Il 29 agosto dello stesso anno gli venne affidato il comando dell’SM UB 43, con il quale affondò 19 navi in sette missioni. Il 28 giugno 1917 fu trasferito al nuovissimo SM UB 49, che portò nel Mediterraneo e col quale affondò altre 38 navi, per un totale di 154.662 GRT, venendo insignito di due Croci di Ferro e dell’Ordine Pour le Mérite, la maggiore onorificenza militare dell’Impero Germanico.

Destinato a un nuovo sommergibile, venne sorpreso dalla fine della guerra e dai tumulti che ne seguirono in patria. Fece quindi parte dei Freikorps e poi entrò nella neonata Reichsmarine, dove venne inviato nel Mar Baltico fino al ritiro dal servizio attivo il 31 luglio 1922 con il grado di Korvettenkapitan. A questo punto decise di cambiare vita e si trasferì per cercare fortuna in Colombia, dove divenne allevatore e piantatore di caffè. Dopo 16 anni in Sudamerica volle tornare a casa, vedendo i venti di guerra che stavano agitando il mondo. Pensava che la sua patria avesse ancora bisogno di lui e non conosceva la vera situazione politica della nazione. Vendette così le terre e gli animali, trasformando le sue ricchezze in platino, e poi, una volta arrivato in Germania, acquistò la tenuta di Wittenhagen, in Pomerania, e le grandi foreste di Conow.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale von Mellenthin venne richiamato in servizio col grado di Fregattenkapitan, prendendo prima il comando di una nave posamine e poi venendo destinato all’arsenale di Gotenhafen. Il 31 dicembre 1942 venne definitivamente posto in congedo. Nel 1944 il genero, conte Heinrich Graf von Lehndorff, si nascose con la famiglia nelle foreste di Conow, ricercato dalla Gestapo per aver partecipato all’attentato contro Hitler della Tana del Lupo. Riuscì a rimanere nascosto nei boschi fino a quando fu denunciato da uno dei forestali di von Mellenthin e quindi arrestato e giustiziato. Ad aprile 1945 Hans e la moglie riuscirono a scappare dalle truppe dell’Armata Rossa che irrompevano nella regione, rifugiandosi ad Amburgo insieme a centinaia di migliaia di altri sfollati. Nel 1950 ritornò poi in Colombia, dove acquistò l’Hacienda Tolu e fece nuovamente l’allevatore di bestiame per dieci anni. Ritornò infine in Germania e si spense a Kiel il 12 giugno 1971, chiedendo di essere seppellito lì, vicino al Mar Baltico, che per tutta la vita aveva sentito scorrergli nelle vene.

L’SM UB 49

Il battello che rese celebre Hans von Mellenthin fu l’SM UB 49 (Seine Majestat Unterseeboote 49, codificato nell’Impero austro-ungarico come U80), un sottomarino costiero di tipo UB III, una classe entrata in servizio nel 1917, dopo l’ingresso in guerra degli Stati Uniti. La flotta americana, i nuovi sistemi di rilevamento sotto la superficie e il sistema dei convogli avevano reso la vita ancor più dura ai sommergibilisti, tuttavia, le 89 unità varate prima della fine della guerra fecero ampiamente il loro dovere, affondando 521 navi, per 1.123.211 tonnellate di stazza lorda di naviglio, più 7 navi da guerra, fra cui la corazzata HMS Britannia.

L’UB 49 venne costruito nei cantieri Blohm & Voss di Amburgo e commissionato il 28 giugno 1917. Aveva un dislocamento di 516 tonnellate in emersione e di 651 sotto la superficie. La sua lunghezza fuori tutto era di 55,30 metri x 5,80 x 3,68. Queste dimensioni comprendevano le casse di zavorra e l’esterno della nave, mentre lo spazio a disposizione degli uomini era molto meno: 3 ufficiali e 31 marinai schiacciati come sardine in una scatola mortale lunga 40 metri. Era propulso da due motori diesel MAN a 6 cilindri a quattro tempi in superficie, che sviluppavano 1100 cavalli, e da due motori elettrici Siemens-Schuckert da 788 cavalli in immersione.

La velocità massima in superficie era di 13,6 nodi per un’autonomia di 9040 miglia marine (16740 km), mentre sott’acqua era di 8 nodi per 55 miglia (a 4 nodi), con una profondità di prova di 50 metri che, in caso di necessità, poteva diventare di 75. Aveva 4 tubi lanciasiluri a prora e uno a poppa, con una riserva di 10 siluri, e sulla coperta c’era un cannone da 88 mm. Il progetto fu ritenuto talmente valido che gli ingegneri tedeschi, dopo la guerra, lavorarono in segreto per il suo miglioramento, che portò alla creazione del famoso Tipo VII, l’U-Boot più famoso della Kriegsmarine durante la Seconda Guerra Mondiale.

Il primo incontro

Il 23 dicembre 1917 il piccolo convoglio formato dal Caboto, dalla torpediniera 54 AS e dal dragamine G32 venne quindi avvistato da una macchina di morte all’avanguardia e da un eccezionale comandante di sottomarini. Il bersaglio principale era il grosso piroscafo, che venne silurato senza grosse difficoltà dal sommergibile, sfuggito poi senza danni alla caccia delle unità di scorta, che non disponevano dei mezzi adatti alla sua ricerca. Il Caboto finì sul fondo di San Vincenzo, a 75 metri di profondità. A lungo i subacquei ritennero che il relitto fosse quello di un altro bastimento affondato, il Fianona. La sorte è però beffarda. L’UB 49 lanciò il suo ultimo siluro il 25 dicembre, giorno di Natale, affondando il vapore inglese Umballa presso Napoli, per poi tornare a Pola per rifornimento. Il 23 gennaio intraprese la sua quarta missione di guerra, dirigendosi nuovamente verso il golfo di Genova. Il G32 continuava invece la sua opera di dragaggio al largo delle coste livornesi.

L’affondamento

Dopo aver affondato otto piccoli velieri italiani e un grande vapore inglese (il General Church di 6600 tonnellate), l’UB 49 si diresse verso meridione e il 7 febbraio 1918, ancora davanti a San Vincenzo, si immerse alla vista di un piccolo vapore: era il G32. Il destino del dragamine era legato al sommergibile tedesco. Alla vista dei due cannoni presenti in coperta, von Mellenthin decise di non rischiare un combattimento col cannone ma di usare un siluro: l’ordigno portò via di netto la prua del piccolo battello, che affondò immediatamente. Era giunta la fine del peschereccio giapponese divenuto, suo malgrado, una macchina da guerra.

L’asso tedesco guidò l’UB 49 per altre due missioni, poi fu sostituito dal meno capace e fortunato Adolf Ehrensberger, che riuscì ad affondare solo due navi al largo della Spagna. Quando ormai era chiaro che la situazione dell’Austria-Ungheria era arrivata alla fine, al comandante fu ordinato di ritornare in Germania. Partì da Pola il 29 ottobre 1918, raggiunse Lervik, in Norvegia, l’ultima settimana di novembre e infine Kiel il 29 dello stesso mese. Il sommergibile fu consegnato agli inglesi il 16 gennaio 1919 e venne distrutto a Swansea nel 1922.

San Vincenzo

San Vincenzo è oggi una splendida località turistica posta sulla Costa degli Etruschi. Abitata da popolazioni fin dall’età antica, fu insediamento etrusco e romano. Il territorio è magnifico, caratterizzato da spiagge di sabbia chiara e finissima e da un parco con una folta pineta che si spinge verso sud, fino al golfo di Baratti e Populonia, arroccata sulla montagna. A nord c’è Castagneto Carducci, Bolgheri, i vigneti, gli ulivi e i pini marittimi. Conosco questa zona da tutta la vita e da sempre sogno di comprarmi una casetta dove andare a passare gli anni della pensione. Il mare è splendido, la gente estroversa e si mangia molto molto bene: carne, pesce e verdure coltivate come un tempo, senza contare l’olio e il vino, che sono eccezionali.

Molti anni fa scoprii poi un’altra sua caratteristica: è il paradiso dei subacquei che amano i relitti. Se non erro, dovrebbero essere addirittura 18 quelli visitabili, dai 9 metri di profondità di una chiatta tedesca fino ai 75 del Caboto. Il numero esatto non è conosciuto perché, ancora oggi, i pescatori e i proprietari dei diving vicini ne tengono qualcuno segreto per le ferrate, per visitarli solo con gli amici o ancora per proteggerli dai razziatori di souvenir. Il motivo della presenza di così tante navi affondate è semplice: era la via d’accesso al porto di Livorno, quindi zona d’agguato dei sommergibili durante le due guerre mondiali, delle veloci siluranti e degli aerei. Altre sono invece affondate per “semplici” mareggiate.

A San Vincenzo c’era anche un diving center, che cambiò più volte proprietario e poi chiuse i battenti. Oggi, se si vogliono visitare i suoi relitti, bisogna mettersi d’impegno per convincere i diving di Baratti o Cecina a fare un tratto di costa più lungo del normale. Non lo fanno volentieri anche per un altro semplice motivo, che fu la causa della crisi economica del diving locale e della sua chiusura: la visibilità. I relitti si trovano infatti posati su un fondale di sabbia, che in alcuni punti è davvero fine e limacciosa. La visibilità sul fondo risulta quindi un’incognita, mai eccezionale e a volte terribile.

L’immersione

Fu così durante la mia visita. Il giorno prima c’era stato mare mosso, che aveva sollevato completamente la sabbia dal fondo, a circa 25 metri di profondità. Peccato, perché era la fine di giugno, la temperatura e il mare sembravano perfetti ed eravamo a solo 1,8 miglia dal porto. Vicino alla superficie c’erano un grosso banco di sardine e uno di sugarelli (pesce semplice ma buono per il caciucco) ma una volta scesi sul fondo ci ritrovammo una visibilità inferiore al metro che impediva di fare qualsiasi scatto. Visitammo l’imbarcazione più a tentoni che grazie alla vista, scoprendola in assetto di navigazione, con gli argani ancora presenti, diverse sovrastrutture collassate, la poppa in buone condizioni e il castello di comando ancora intero.

Una piccola penetrazione sembrava possibile a quei tempi ma sicuramente pericolosa e non fattibile in quelle condizioni, per cui rinunciammo, così come alla visita della prua (staccata), quel giorno irraggiungibile. Fu comunque un’immersione piacevole, specie per chi, come me, era abituato alle visibilità lacustri. Rimandai a una prossima volta una migliore esplorazione dei resti della nave. Ce ne sarebbe stata comunque l’occasione, in modo da fare anche qualche foto almeno decente.

Invece non sono mai più riuscito a tornare sul G32 e su alcuni altri relitti di San Vincenzo visitati anni fa. Sono però uno che non demorde. Lo sanno anche gli amici dei diving toscani. E se vi piacciono le storie di mare e di immersioni, vi rimando alla lettura di “Storie Sommerse – Esplorazioni tra i relitti“, edito da Il Frangente di Verona.

 

Fonte foto: Wikipedia

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