Capo Verde: il mistero del Bolama

Il Bolama era una nave a propulsione mista vela e vapore concepita per il trasporto di merci e passeggeri tra la madrepatria e le colonie del Portogallo nella parte occidentale dell’Africa

30 May 2024 | di Paolo Ponga

Dopo circa sei ore di volo l’aereo sembra finalmente rallentare. Il capitano ha infatti da poco annunciato la discesa verso l’arcipelago di Capo Verde. Dal finestrino posso godere di uno spettacolo incredibile, anche se non si intravede nulla del colore che gli dà il nome: sabbie color ocra dorato, cielo azzurro e un mare blu come la notte. Che differenza con l’Italia, dove quest’anno l’inverno non vuole finire.

Tra questi dieci gioielli incastonati nell’Oceano Atlantico di fronte alle coste del Senegal, la mia meta è l’Isola di Sal, quella più conosciuta e amata dai molti turisti italiani che la frequentano. Scoprirò infatti che i suoi abitanti (gentili, sorridenti e poco invadenti, a differenza di molti altri Paesi africani) parlano quasi tutti l’italiano, oltre al portoghese, che viene insegnato nelle scuole, e al creolo, vera lingua di queste aride terre, cime di antichissimi vulcani. Il suo nome significa ovviamente “Isola del Sale”, probabilmente a causa delle famose e bellissime saline di Pedra di Lume, poste sul fondo del cratere di un vulcano estinto: uno spettacolo magnifico.

Io soggiornerò in un resort situato sulla bellissima spiaggia di Santa Maria, una chilometrica distesa di sabbia bagnata dalle acque dell’oceano. Uscendo dalla zona degli alberghi, ci sono ovunque aree di sabbia, terre aride, con i corsi d’acqua che si formano solo durante le brevissime piogge, le cosiddette “ribeiras”, ed un costante vento, che diventa fastidioso solo durante l’inverno, nei mesi di gennaio e febbraio. D’altronde l’isola è famosa per il surf, il windsurf e il kitesurf, con un campione del mondo della specialità, l’amatissimo Mitu Monteiro. Ma io non sono qui per questo.

Prima di partire ho scambiato molte mail con Fabrizio Accoroni, il vulcanico titolare del Cabo Verde Diving, che vive su quest’isola da 21 anni e ne conosce ogni granello di sabbia, ogni goccia del mare, pur rimanendo legato alle terre bergamasche da cui proviene e alla squadra di calcio definita “la Dea”. Il mio obiettivo numero uno saranno le immersioni, ça va sans dire, e nello specifico i relitti. Fabrizio mi scrive che ce ne sono diversi, anche a profondità semplici da raggiungere, e che sicuramente si può organizzare un’uscita. Bene. Come sempre mi informo e scopro che ha sicuramente ragione.

Da quando Alvise Cadamosto, navigatore veneziano, ha scoperto queste isole nel 1456, poi visitate anche da Cristoforo Colombo nel suo terzo viaggio oceanico del 1498, le sue baie sono state toccate da un’infinità di navi da trasporto, che qui facevano scalo nella tratta per le Americhe o per l’Africa meridionale. Nel Settecento divenne un centro molto importante per il commercio e la tratta degli schiavi africani: le navi negriere si fermavano infatti sulle isole per fare rifornimento di acqua e generi alimentari. Una volta terminato il vile commercio di esseri umani, le isole hanno continuato a costituire un punto di approdo per i commerci attraverso l’Atlantico. Questo grande traffico in un mare non sempre tranquillo e molto ventoso, ha reso assai facile la presenza di relitti di epoche diverse lungo le coste dell’arcipelago.

L’immersione

L’organizzazione del centro immersioni di Fabrizio, coadiuvato dall’istruttore Federico e dalle bravissime guide capoverdiane, è perfetta. Cominciamo a vestirci al diving, poi un breve tragitto in pick-up fino al paese di Santa Maria, dove ci imbarcheremo sul gommone che attracca al molo dei pescatori. Solo quest’ultimo tratto a piedi varrebbe la gita, tra i ragazzi che sorridono mentre puliscono i tonni, i wahoo e i marlin appena pescati, per poi portarli con le carriole verso le cucine dei ristoranti e degli alberghi. Una volta saliti in barca, ci dirigiamo verso i due punti di immersione della giornata, posti sulla costa meridionale dell’isola vicino al paese: il cosiddetto Farol Baixa Reef Tres Grotes, una parete che raggiunge i 20 metri di profondità con tre piccole caverne, e il relitto del Santo Antao, un mercantile affondato nel 1966.

La prima immersione, tipicamente naturalistica, risulta essere davvero piacevole. La temperatura è di circa 23 gradi e consente di immergersi agiatamente con una calda magliettina acquistata da Mitu Monteiro e una muta umida da 5 mm. Malgrado l’isola sia di origine vulcanica, qui non dominano le rocce scure ma i colori chiari, con coralli di piccole dimensioni che non formano le foreste sgargianti tipiche di altre parti del mondo. A differenza delle Isole Canarie, dove il pesce è una perfetta commistione fra quello Mediterraneo e quello Atlantico, qui la presenza di quello oceanico è preponderante, anche se non esclusiva. A stupire è la pazzesca varietà di specie e la grande quantità di forme di vita sempre presenti, che dimostrano di avere una totale mancanza di paura nei confronti dei subacquei.

Ci sono pesci istrice, trombetta, pappagalli, murene di specie diverse, cernie tropicali, tantissimi grugnitori in grandi banchi, tartarughe, aragoste, triglie, saraghi, ricciole, magnose che sembrano enormi. Non sono difficili gli incontri fugaci con tonni pinna gialla, ricciole, squali limone e tanti, tantissimi squali nutrice, infilati in strette tane al riparo dalla luce del giorno. Per entrare nelle piccole caverne occorre farsi strada in mezzo al pesce, che sembra non volersi allontanare nemmeno quando ci passi in mezzo o lo illumini con i potenti fari delle lampade subacquee.

Il relitto misterioso

Al termine dell’immersione ci dirigiamo lentamente verso la sagola che ci riporterà in superficie e qui abbiamo una gradita sorpresa: i resti di un relitto. Siamo a bassa profondità, una decina di metri, con tanta sospensione che crea problemi nelle fotografie e una forte risacca che sposta noi e i banchi di pesce da una parte all’altra del fondale marino. Però, come sempre, riesco a vedere solo magia: quella insita nel mistero di una nave sommersa. Si intravedono la chiglia, le ordinate, l’albero motore e un’enorme caldaia cilindrica. Si tratta sicuramente di una nave affondata da molto tempo, rovinata dalle tempeste che devono essersi abbattute su questo tratto di costa durante gli anni passati sott’acqua. La caldaia colpisce l’osservatore per la sua grandezza, l’asse verticale, la palese solidità della sua struttura e i piccoli banchi di grugnitori colorati che si fanno dondolare dalla corrente di risacca intorno ad essa. È affascinante.

Appena usciti dall’acqua chiedo alla mia guida di cosa si tratti. Dice che l’immersione si chiama “Caldeirinha“, ossia “Piccola caldaia”, e che si tratta di una nave affondata alla fine dell’Ottocento ma l’attenzione viene improvvisamente distolta dalla visione di una megattera che soffia in mare aperto di fronte a noi e poi ritorna sotto la superficie mostrandoci la coda. Finita l’immersione al Santo Antao, i cui resti rovinati dal mare sono ricchi di pesci in maniera indescrivibile, ritorniamo al diving, dove sono ansioso di chiedere informazioni a Fabrizio e Federico. Mi mostrano la copia di un’antica immagine che dà bella mostra di sé sulla parete del diving center, giusto di fronte a una maglietta da calcio a strisce azzurre e nere. Questa dovrebbe rappresentare la nave affondata alla fine dell’altro secolo, il cui probabile nome è “Bolama“. Da una veloce ricerca in rete viene infatti sempre riportata la stessa denominazione: “Wreck Bolama at Sal Island”. Chissà.

Le ricerche

Al mio ritorno in Italia comincio le ricerche. Bolama è una città della Guinea-Bissau, uno degli stati più poveri del mondo che si trova in Africa, sotto al Senegal. Dal 1879 al 1941 fu la capitale della Guinea portoghese. A cavallo fra Otto e Novecento ci furono due navi con questo nome: Bolama e Bolama II. Che il relitto appartenga davvero a una di queste due? Il primo a essere escluso da tale possibilità è stato il Bolama II, varato nel 1899 e del quale sono disponibili numerose immagini nel Museo Digitale della Marina Portoghese. Il mercantile, molto più moderno rispetto a quello dell’incisione, navigò per trent’anni, fino ad affondare a causa di un incendio l’8 ottobre 1930 al largo di Lorenço Marques, l’attuale Maputo, in Mozambico.

Il Bolama rimane quindi l’identificazione più probabile. Una nave a propulsione mista vela e vapore concepita per il trasporto di merci e passeggeri tra la madrepatria e le colonie del Portogallo site nella parte occidentale dell’Africa. Costruita nel 1883 dalla Earle’s Shipbuilding & Engineering Co. Ltd, aveva una stazza di 689 tonnellate in ferro distribuite in 54,9 metri di lunghezza per 7,9 di larghezza. Sembra facesse parte di una compagnia di navigazione portoghese chiamata CNN, Companhia Nacional de Navegaçao, e alcune fonti parlano in effetti di un suo affondamento a Capo Verde nel 1896. Sul Lloyd’s Register del 1895 trovo il nome del Bolama, che non rivedo però negli anni successivi, rendendo così probabile la notizia dell’affondamento.

Qualcosa però non torna, non mi convince. Alcune delle scarse notizie appaiono contraddittorie. Nel frattempo trovo un secondo candidato, il piroscafo “Portugal“, che sembra avere le caratteristiche e la storia giusta. Continuo così le ricerche, fino a trovare la soluzione grazie a Chris, un esperto subacqueo inglese che si interessa della cosa e mi indirizza verso vecchi articoli di giornale. Infine, riesco a ricostruire la storia grazie a dei portoghesi appassionati storici di marina. Chris comprende le mie perplessità e scava nelle notizie dei giornali dell’epoca, fino a confermare l’avvenuta confusione nell’attribuzione delle due navi affondate.

Il Glasgow Herald del 13 ottobre 1896 scriveva infatti: “Un ulteriore telegramma relativo al Bolama (S), che veniva precedentemente riportato come distrutto da un incendio a Porto Praia, afferma ora: Tutti gli uomini salvati. Borse postali Guinea perdute. Brucia tutta la vaporiera”. Mentre il Liverpool Shipping Telegraph e Daily Commercial Advertiser del 17 ottobre 1896 confermava che il “Bolama (SS) St Vincent, 16 ottobre. Per quanto si può accertare, ora è un disastro totale ed è stata spiaggiata per evitare l’affondamento”. Dove S significava ovviamente “steamer” (vapore) e SS “steam ship”.

Il Portugal

Quindi il relitto di Santa Maria non era il Bolama, bruciato davanti a Praia e poi spiaggiato e smontato per recuperarne le parti metalliche. Ma allora quale poteva essere? Sempre un’altra vecchia fonte suggeritami da Chris sembrava potermi aiutare. Con qualche fatica sono riuscito a venire in possesso di una copia telematica della Shipping Gazette and Lloyd’s List del 13 febbraio 1897. In un minuscolo trafiletto avevo davanti agli occhi la soluzione: Portugal (S). St. Vincent, C.V. Feb. 12, 2.50 p.m. Portuguese mail steamer Portugal ashore at Sal and has become a wreck. Reports indicate she cannot be saved. Part of cargo will probably be saved. Crew and passengers saved (Il piroscafo postale portoghese Portugal si è incagliato a Sal ed è diventato un relitto. I rapporti indicano che la nave non può essere salvata. Probabilmente una parte del carico verrà recuperata. L’equipaggio e i passeggeri sono salvi).

Occorreva una conferma e qualche notizia sulla nave e sulle sue rotte, che sono giunte dal gruppo di appassionati storici portoghesi. Il 20 dicembre 1880 fu costituita a Lisbona la “Empresa Nacional de Navegaçao a Vapor para a Africa Portugueza” (ENN), una compagnia armatrice che sopravvisse con questo nome fino al 1918. Il suo scopo era il trasporto di posta, merci e passeggeri dalla madrepatria alle colonie dell’Africa occidentale. Anzi, il 30 dicembre di quell’anno la compagnia firmava un contratto di esclusiva con il governo portoghese della durata di 10 anni, impegnandosi a effettuare un minimo di 12 viaggi all’anno sulla rotta Lisbona – Moçamedes, un piccolo porto nel sud dell’Angola affacciato sull’Oceano Atlantico e con alle spalle il deserto del Namib. Il viaggio durava 70 giorni e le navi facevano scalo a Funchal (Madeira), Sao Vicente e Sao Tiago (Capo Verde), Principe e Sao Tomé (nell’omonimo e sperduto arcipelago), Rio Zaire, Ambriz, Luanda, Benguela e infine Moçamedes, in Angola.

Per la flotta la compagnia aveva deciso di non badare a spese e aveva ordinato in Inghilterra il meglio che i cantieri potessero offrire all’epoca. I primi due piroscafi a propulsione mista vela e vapore furono costruiti dalla Earle’s Shipbuilding & Engineering Co. Ltd di Hull, nello Yorkshire: si trattava del Portugal e dell’Angola, due navi gemelle. Una pubblicità del 1881 descrive nei dettagli il Portugal e la sua rotta: 295 piedi di lunghezza (90 metri) per 35 di larghezza (10,7 metri) e 25 di altezza (7,60 metri), 1966 tonnellate di stazza lorda, un motore a vapore e due alberi che con la propulsione mista potevano spingerlo a 12 nodi con il vento a favore (“Da Cardiff a Lisbona in sole 80 ore e con vento di prua!”). La nave era divisa in sei compartimenti e alloggiamenti separati e poteva ospitare 60 passeggeri in lussuose cabine di prima classe, 30 persone in quelle di seconda e 120 in quelle più rustiche di terza. Nessuna comodità era stata esclusa e disponeva di una zona fumatori, una riservata alle donne e ai malati e addirittura di bagni in terza classe. Nelle ampie stive venivano caricate merci di ogni tipo e trasportava gratuitamente la posta e sei coloni per ogni viaggio. Inoltre, aveva sei scialuppe di salvataggio, di cui quattro riservate ai passeggeri.

La nave era così bella, con il fumaiolo, gli alberi e la dritta linea di prora, che fu addirittura ritratta in un meraviglioso disegno a china, poi stampato e pubblicato da una rivista della fine dell’Ottocento che si chiamava “Occidente”. Lo stesso disegno che ora campeggia sulla parete del diving di Fabrizio a Capo Verde: quello del Portugal, poi incagliato nel reef e finito, senza vittime, sotto le acque di Santa Maria. Se vi fosse venuta voglia di immergervi sui resti del Portugal o di fare altre splendide immersioni sull’Isola di Sal, non posso che consigliarvi il diving di Fabrizio, altrimenti, per altre storie di mare, relitti e immersioni, vi rimando a “Storie Sommerse – Esplorazioni tra i relitti“, edito da Il Frangente di Verona.

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1 commento

  1. Adriana Volpi says:

    complimenti! uno dei primi articoli che riguardano la nostra “isolachenonc’è” che rispetta la realtà! per la parta subacquea non posso che prendere nota delle I formazioni e rinnovare i complimenti a Fabrizio e Romina , cari amici da sempre , competenti e disponibili ! confermo la loro professionalità e il consiglio di contattarli per un’avventura nel nostro oceano .

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