Baron Gautsch, il Titanic dell’Adriatico – Parte 2

Le autorità tennero nascosta la vera causa dell’affondamento del Baron Gautsch: si parlò così di sabotaggio del nemico

27 March 2024 | di Paolo Ponga

Tra i passeggeri del Baron Gautsch scoppia subito il panico, perché si rendono conto che la nave sta affondando e che le loro vite sono appese ad un filo: la maggior parte di loro non sa nemmeno nuotare. L’acqua entra furiosamente ovunque affogando i passeggeri nelle cabine, mentre nel locale caldaie gli uomini vengono dilaniati o bruciati dal vapore. Solo un macchinista ha la prontezza di fermare i motori, salvando così molte vite. Il comandante Winter si precipita fuori dalla sua cabina per entrare in plancia ma si accorge che non può fare nulla per salvare la sua nave. Si mette a gridare per far mantenere la calma ma si dimentica di far suonare la sirena d’emergenza.

All’esterno la situazione è disperata e ognuno cerca di salvarsi come può, arrampicandosi sempre più in alto o gettandosi in mare, mentre Tenze e alcuni passeggeri tentano di mettere in mare le scialuppe. La numero 8 viene agevolmente calata in acqua e su di essa si precipitano il primo ufficiale Luppis, molti marinai e pochi passeggeri. Il motto “prima le donne e i bambini” non vale per l’equipaggio, che pensa innanzitutto a salvare la propria pelle. Sono quindi tutti gli altri a tentare di calare le scialuppe ma le cime sono bloccate e il sistema di sgancio non è stato revisionato. Molti giubbotti salvagente sono irraggiungibili perché si trovano nelle cabine allagate e le cinture di sicurezza sono chiuse a chiave in un gavone di prua perché si temeva che i passeggeri di terza classe potessero utilizzarle come cuscini: la chiave è al collo del nostromo Paolo Pagliaga, che si trova al sicuro nella scialuppa numero 8.

Le scene sono orribili. Alcuni genitori gettano i figli in mare nella speranza che qualcuno abbia compassione e li aiuti, mentre le bambine di un collegio di Lussino vengono chiuse dentro un salone a pregare che la nave non affondi. Moriranno tutti. Molti si accalcano sulle sette scialuppe rimaste e un uomo riesce con un coltello a tagliare le cime di due di esse, che precipitano in mare con violenza, affondando sotto la superficie. L’acqua intanto continua a salire e le persone sono ridotte ad agire come belve feroci per contendersi un giubbotto o un salvagente, mentre qualcuno spara dei colpi di pistola per far mantenere la calma.

Chi è capace di nuotare è ormai in acqua, nel tentativo di allontanarsi il più possibile dalla nave, che affondando può creare un vortice in grado di risucchiare tutto ciò che le sta intorno. La costa è però lontana sei miglia e la superficie del mare è ricoperta di olio combustibile, nel quale molti rimangono invischiati e faticano a respirare, mentre in altri punti ha preso fuoco bruciando vivi i naufraghi. I giornali dell’epoca riferiscono addirittura dell’arrivo di alcuni squali che attaccano le persone in acqua, come verrà confermato nei giorni successivi dalla cattura di uno di essi, dentro il cui stomaco vengono ritrovati resti umani e scarpe di bambino.

Gli unici a stare al sicuro sono gli occupanti della scialuppa numero 8, che prendono a colpi di remo chi tenta di salirci sopra, rischiando di farla affondare: dei testimoni riferiranno che il primo ufficiale minacciava con la sua pistola chiunque tentasse di avvicinarsi. Il comandante Winter è invece ancora sul Baron Gautsch a cercare di dare una mano. Rimane a bordo fino all’affondamento completo e viene addirittura trascinato sotto la superficie, anche se poi si ritrova miracolosamente di nuovo a galla. Diverse navi rispondono alla chiamata di soccorso. Oltre al posamine Basilisk, vi sono i cacciatorpediniere Csepel, Triglav e Balaton, prontamente accorsi da Pola: in tutto riescono a salvare 159 persone, di cui 41 o 50 dell’equipaggio (a seconda delle fonti).

La notizia si diffonde

A Trieste i parenti dei passeggeri sono sul molo ad attendere l’arrivo della nave, che di solito è in perfetto orario. Cominciano a preoccuparsi, poi entrano nel panico. “Verso sera rapidissimamente – scrive il quotidiano triestino Il Piccolo nell’edizione pomeridiana del 14 agosto 1914 – si diffuse nella città una notizia luttuosa che veniva dal mare. Il Baron Gautsch, il bel piroscafo lloydiano della linea di Dalmazia, era scomparso, inghiottito dal mare. (…) Molte madri, molte spose passarono ieri, tutta la notte, al molo e alla riva con gli occhi lacrimanti fissi verso il mare, nella disperata attesa del piroscafo che più non doveva ritornare. E fin dal primo mattino, quando mancava qualche ora ancora all’apertura degli uffici, s’affollavano dinanzi al palazzo del Lloyd tante e tante famiglie di coloro che navigavano sul Baron Gautsch. Dopo il terrore del primo annuncio, dopo la notte, una di quelle eterne notti di ansia di cui ogni ora par che duri un secolo, esse erano tutte là, ad attendere angosciosamente di udir la parola che racchiudeva per loro il destino. Giovani e vecchi, donne in gran numero, straziate, d’ogni condizione, erano tutti là, pallidi, sfiniti, affratellati in quell’immensa angoscia”.

Una verità da nascondere

Le autorità tengono nascosta la vera causa dell’affondamento: la guerra è appena iniziata e non è possibile dire la verità. Non si può ammettere che la perla del Lloyd austriaco è affondata, con centinaia di vittime civili (soprattutto donne e bambini), per colpa di una mina austriaca. Non si può comunicare che la maggior parte dell’equipaggio è salvo perché ha pensato a se stesso e non ai passeggeri. Si tratta della prima nave civile affondata durante la Grande Guerra, colma di persone inermi: è un nuovo Titanic, il Titanic dell’Adriatico, come verrà definito. Si parla così di sabotaggio del nemico, forse di un siluro lanciato da un sommergibile senza vergogna.

Come da prassi, Winter e Luppis vengono arrestati e viene imbastito un lungo processo che terminerà solo il 1 settembre 1918. Alle domande precise dell’accusa, di fronte ai testimoni che raccontano la loro verità, i due ufficiali rispondono molto spesso in modo vago, con dei “non ricordo”, rifiutando qualsiasi addebito morale. Il capitano nega di essersi addormentato in cabina, affermando di essere subito uscito, prodigandosi per salvare vite umane: non ha dato lui l’ordine di accostare, non l’hanno chiamato, non ha sentito la sirena del Basilisk. Parte dell’equipaggio ha dimostrato codardia ma altri hanno lottato per salvare i passeggeri. E in ogni caso, il colpevole perfetto esiste ed è sotto gli occhi di tutti: Giuseppe Tenze, al comando della nave nei momenti cruciali e morto durante l’affondamento, quindi non in grado di difendersi.

Alla fine del processo l’Austria-Ungheria sta per implodere. Il governo, i giudici e il Lloyd sono tutti d’accordo: la colpa è di Tenze, che, per motivi ignoti, ha portato la nave colpevolmente troppo vicino alla costa, dentro il campo minato. C’è stato poi un concatenarsi di casualità non ascrivibili al Lloyd austriaco o ai due ufficiali, che così hanno salva la carriera. Le prove di salvataggio erano state fatte, le scialuppe erano a posto, i giubbetti in abbondanza per tutti. Il governo stanzia una piccola cifra di risarcimento per le vittime, stabilendo regole complicate e interrompendo subito i pagamenti alla fine della guerra. Intere famiglie finiscono in miseria, oltre ad aver perduto i loro cari. In seguito, la maggior parte delle carte processuali finirà bruciata nell’incendio del Tribunale di Vienna durante una manifestazione del 1927, senza contare che le ultime carte saranno distrutte dai nazisti nel 1938, quando daranno alle fiamme gli archivi dell’avvocato Shapiro perché di origine ebraica.

Il relitto dimenticato

L’affondamento della nave scuote gli animi dei sudditi della Duplice Monarchia ma sarà presto dimenticato a causa di lutti molto più gravi. Il relitto viene subito visitato da palombari a caccia della cassaforte e di oggetti preziosi: uno di essi vi trova persino la morte, per colpa della manichetta dell’aria tagliata da una lamiera. Negli anni Venti il relitto viene invece utilizzato come bersaglio dagli incursori del neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Dimenticato per trent’anni, viene ritrovato alla fine degli anni ’50 da un subacqueo triestino, che ne acquista la proprietà dalle Assicurazioni Generali, eredi del Lloyd austriaco. Le autorità jugoslave gli negano però questo titolo, sostenendo che il relitto si trova all’interno delle acque territoriali. Successivamente, le isole Brioni diventano la residenza estiva di Tito e le immersioni vengono vietate.

Il Baron Gautsch viene così dimenticato di nuovo, finché nel 1990 lo riscopre un subacqueo croato grazie alle segnalazioni di un pescatore. Finita la guerra civile jugoslava, i subacquei cominciano a visitarlo, saccheggiando tutto ciò che è possibile asportare, come piatti, bicchieri, tazze, posate d’argento, e i “ricordini” sono spesso rivenduti dagli antiquari di mezza Europa. Sono tutti in cerca del famoso tesoro del Baron Gautsch, che diventa un mito: la cassaforte, l’oro, i gioielli e le pietre preziose che sicuramente i passeggeri avevano portato a bordo, persone benestanti in fuga da una zona di guerra. In realtà, è ormai scomparso tutto da decenni sotto il fango del fondo marino. Adesso il relitto è sotto la tutela dello stato croato ed è possibile visitarlo solo tramite un centro immersioni autorizzato, che protegge i resti della nave. I dati dei subacquei vengono registrati e si paga una piccola tassa.

Agosto 2023: le immersioni

Da molti anni sento parlare del Baron Gautsch, il Titanic dell’Adriatico, e mi trovo a Rovigno appositamente per visitarlo. Il tempo è meraviglioso, con il cielo blu e il mare piatto come una tavola, esattamente come nell’estate di 109 anni fa. Mi avvalgo del Rovinj Sub, un diving gestito alla perfezione da Roberto Cafolla, un istruttore di rara professionalità e simpatia che lavora con i figli e un gruppo di preparatissime guide. Scenderò tre volte sul relitto, un’immersione più bella dell’altra. Il mare, come fa sempre, ha reso la nave un’oasi di vita.

Durante la prima immersione vengo preso da una forte emozione e non riesco a non pensare alla tragedia del secolo scorso. La visibilità è eccezionale e la nave si scorge dalla superficie. È assolutamente inusuale in questa stagione e provo la sensazione che mi stia dando il permesso di scendere su di essa e di fotografare le sue lamiere e i suoi abitanti. A un patto però: che una volta tornato a casa io faccia il mio lavoro, ovvero racconti la sua storia, perché mai più succedano queste cose. Il relitto è come lo immaginavo, anzi molto di più. Dal punto di vista subacqueo è infatti uno dei relitti più belli che abbia mai visto.

Il Baron Gautsch giace appoggiato in assetto di navigazione su un fondale di 40 metri, con la prua orientata a 330° verso Trieste, la sua destinazione. La plancia di comando in legno è scomparsa e gli alberi non sono più al loro posto ma lo scafo è ben conservato e la sua linea è magnifica. Nella parte centrale della fiancata di babordo si incontra la falla causata dall’esplosione della mina, di circa due metri per due, all’altezza della linea di galleggiamento. Mancano i vetri degli oblò perché si sono staccati o sono stati asportati da qualche furbo anni fa e la luce riesce a raggiungere i saloni interni oltrepassando le grandi vetrate, attraverso le quali si può penetrare all’interno. Le gru di alaggio delle scialuppe di salvataggio della parte sinistra della nave sono rovesciate verso la fiancata, come a testimoniare gli strenui sforzi fatti dai passeggeri per sopravvivere, e sono ancora visibili le ancore e l’argano di salpamento.

Essendo situato su un fondale sabbioso di limo fino, la visibilità è estremamente mutevole e spesso migliore in autunno o primavera rispetto all’estate. Se si è subacquei di buon livello e capacità, non risulta un problema visitare i magnifici saloni di prima classe, ampi e di facilissimo accesso. Nella seconda immersione scendo in quelli di seconda classe, al piano inferiore, mentre nella terza faccio ciò che non si potrebbe, entrando da un portello aperto a babordo, vicino alla prua, e percorrendo buona parte della nave a un livello ancora inferiore, sempre stando attento a non sollevare la sabbia finissima. Sono costretto a risalire perché davanti a me c’è una coppia avventurosa ma per niente abituata agli spazi chiusi che mi renderà impossibile vedere al di là del mio naso.

In compenso, l’uscita in mare aperto mi suscita una grande emozione, vista l’enorme quantità di pesci che abita il relitto o caccia nelle sue immediate vicinanze. Quando risalgo, getto un ultimo sguardo alla meravigliosa linea del Baron Gautsch, che pare appoggiato sul fondo solo per riposare un momento prima di riprendere la via verso Trieste, rivolgendo un saluto in ricordo di chi non ce l’ha fatta in quell’estate di poco più di un secolo fa. Se vi affascinano le storie di mare e di relitti, vi rimando a “Storie Sommerse – Esplorazioni tra i relitti“, edito da Il Frangente di Verona.

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