Datteri di mare: il frutto proibito che fa impazzire i buongustai

Alla scoperta dei piccoli molluschi croce e delizia di ristoratori e appassionati

20 March 2024 | di Redazione Daily Nautica

Hanno una robusta corazza di forma allungata e colore scuro che cela un piccolo mollusco bivalve dal sapore che alcuni descrivono come “dolce e delicato, con una fresca nota salina”. Sono sorvegliati speciali dalle autorità costiere del nostro Paese e sono, a detta di molti, il sogno proibito di ogni amante della pastasciutta che si rispetti: vi presento i datteri di mare.

Appartenenti alla famiglia delle Mytilidae come le cozze, rientrano assieme a vongole, cannolicchi, ostriche, tartufi e fasolari nella grande famiglia gastronomica dei frutti di mare. Peccato, però, che i datteri, vera e propria prelibatezza, siano oggi solo un antico ricordo per le fauci sapienti di chi, fino a qualche decennio fa, poteva liberamente pescare e degustare le loro piccole carni saporite: pesca, detenzione, consumo e commercio sono infatti definitivamente vietati all’interno dell’Unione Europea dal 2006, mentre in Italia procacciarsi datteri di mare è una pratica fuori legge già dal 1998. Il motivo? Prelevare questi pregiati frutti di mare danneggia irrimediabilmente l’ambiente.

Dove cresce un dattero di mare

I datteri di mare vivono e crescono all’interno di sottili tunnel, la loro “casa” all’interno delle rocce calcaree dei nostri mari, un po’ ovunque nel Mediterraneo, sebbene siano piuttosto rari nel Mar Adriatico. Si trovano fino a 100 metri di profondità ma la loro presenza è più abbondante a pochi piedi dalla superficie dell’acqua. La nicchia ecologica che caratterizza questi molluschi è poi estremamente particolare.

È interessante innanzitutto sapere che, allo stadio larvale, il dattero vive e viaggia libero trasportato dalle correnti. Solo in un momento successivo si aggrappa alle rocce, che erode secernendo uno speciale acido che, con la complicità dell’attrito della conchiglia, crea gradualmente un alloggio idoneo ad accoglierlo durante tutto il suo lentissimo processo di crescita. Impiega infatti anni e anni prima di raggiungere la sua lunghezza media: si stima che abbia bisogno di ben quattro lustri per raggiungere i 5 cm. Inoltre, per pescarlo occorre rompere lo scoglio in cui si è infilato e questo crea un irreversibile deterioramento dell’ambiente costiero.

Pesca dei datteri: quanti danni!

In effetti, la pesca del dattero si avvale di tecniche a dir poco distruttive e a pagarne le spese sono i nostri bellissimi litorali di natura calcarea, come è accaduto (e accade ancora) in particolare a quelli del golfo di La Spezia e di Sorrento. Martelli pneumatici, grossi attrezzi a percussione o più semplici scalpelli sono i principali strumenti che i datterari, vestiti di pinne, maschera e bombole, utilizzano per estrarre il dattero di mare dal suo robusto nido. Quel che resta a missione compiuta, oltre a un guscio vuoto, è un cimitero di rocce che somiglia più a un cumulo di sassi rotti che a una rigogliosa scogliera.

E se il danno ambientale non bastasse, c’è il fattore biodiversità: tali interventi mettono a rischio non solo le comunità biotiche con cui i datteri condividono l’habitat ma anche i datteri stessi, che crescono e si riproducono in tempi molto più lunghi rispetto ad altri molluschi e la loro raccolta rappresenta inevitabilmente una minaccia concreta all’esistenza della specie. Facciamo un ragionamento. Un piatto di datteri ben condito implica, oltre alla distruzione di circa un metro quadrato di scogliera, il “sacrificio” di una ventina di esemplari (per un mangiatore medio!) cresciuti pazientemente per 20 lunghi anni e trangugiati con poche forchettate in una manciata di minuti. Vista così, fa piuttosto impressione.

Non sono un’animalista né tantomeno una fanatica ambientalista, mi avvalgo solo del buonsenso, sollecitato dalle informazioni che ho raccolto per scrivere questo articolo. Quelle stesse informazioni che tuttavia non scoraggiano gli impuniti che, in barba alle leggi, continuano imperterriti questo massacro ambientale ed ecologico. Pescatori di frodo abili e ben organizzati, bracconieri senza scrupoli che vendono sul mercato nero italiano ed estero questi prelibati ma vietatissimi molluschi ad una selezionata clientela disposta a pagare cifre da capogiro (fino a 200 euro al chilo durante le feste!) per il loro consumo.

Mettiamola così: se quanto descritto non bastasse a farvi passare la voglia, vi dico anche che i datteri di mare non sono un toccasana per la salute. Essi, infatti, filtrano l’acqua marina e con essa alcuni metalli pesanti nocivi per l’organismo umano, che si accumulano nei loro tessuti finendo poi negli stomaci dei più audaci. Resta inteso che non mi aspetto che queste ultime righe possano scoraggiare la tentazione di assaggiarli: io stessa desidererei scoprire, se solo fosse legale, se le loro piccole carni hanno davvero quel sapore “a metà tra quello della cozza e quello dell’ostrica” che alcuni raccontano. Ma possibile che non ci sia proprio speranza?

Progetto di allevamento

Uno spiraglio di luce, che tuttavia farà storcere il naso agli animalisti, a dire la verità c’è: tale è la richiesta di questi molluschi così speciali che in Italia, già da qualche anno, si sta portando avanti l’ipotesi di allevarli. Un progetto embrionale (per il momento) che dovrebbe partire dalla Puglia e che prevede la loro crescita all’interno di blocchi di cemento dedicati, che verranno poi opportunamente distrutti alla maturità del frutto, a quel punto liberamente e legalmente commercializzato. Il problema ecologico e quello ambientale sarebbero quindi superati ma i lunghi tempi di sviluppo dei datteri di mare scoraggiano molti imprenditori, che vedono un adeguato profitto in grado di ripagare i loro investimenti eccessivamente proiettato nel lungo periodo.

Chissà se torneranno sulle nostre tavole ad allietare i pasti dei nostalgici o di chi invece, fino a poco fa, non sapeva neanche della loro esistenza. Proprio come accadde a La Spezia nel lontano 1928, quando Ras Tafarì Maconnèn, colui che pochi anni dopo sarebbe diventato l’imperatore d’Etiopia con il nome di Hailé Selassié, giunse in visita di cortesia su invito del governo italiano: si narra infatti che, in occasione della cena organizzata in suo onore, furono serviti dei succulenti spaghetti ai datteri. Dapprima dubbioso, il capo di Stato esitò e con lui tutti i membri del suo drappello. Ma dopo il primo assaggio i piatti furono golosamente ripuliti e il summit si rivelò, forse anche grazie ai cari molluschi, un autentico successo. Perché il buon cibo, specialmente un piatto nuovo, mette tutti d’accordo e trasforma qualunque pasto in un bel ricordo.

 

Priscilla Baldesi

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