Alla scoperta del relitto della Lucia di Tremezzo nel Lago di Como

Le condizioni del relitto sono ottime: il legno di castagno si è indurito e non sfaldato, grazie anche al perfetto lavoro di impermeabilizzazione effettuato

12 December 2023 | di Paolo Ponga

Sarà capitato a chiunque di trovarsi a chiacchierare con una persona che ha una passione particolare: si finisce per annoiarsi ad ascoltare i suoi racconti oppure a guardarlo come fosse un invasato, mentre i suoi occhi si perdono nelle immensità dello spazio riservato a ciò che ama. Io, ad esempio, adoro immergermi al lago. È una cosa che non piace a nessuno, nemmeno ai subacquei di mare, tranne ad alcuni che vivono nel Nord Italia. È come andare in moto di notte con la pioggia: è brutto, freddo, non si vede nulla… e allora? Se mi piace davvero andare in moto, lo faccio con qualsiasi tempo. Basta attrezzarsi.

Da quando vivo nel Monferrato, mi manca moltissimo. So che molti amici con i quali scendevo non lo fanno più per età, motivi di salute o perché la vita li ha condotti in direzioni diverse. Forse per questo i ricordi sono più dolci della realtà e parlano di gite in qualsiasi situazione meteorologica e in tutti i mesi dell’anno. Raccontano degli scherzi, dei caffè alla mattina presto, delle avventure sommerse nei laghi subalpini, degli aperitivi all’una della domenica: tutte cose fatte prima di tornare a casa, discutendo dell’immersione appena finita. Si dimentica, com’è ovvio, il freddo patito sotto la superficie, il buio, la mancanza di visibilità, le pinne incollate dal ghiaccio sul muretto, la differenza fra i 35 gradi all’esterno e i 5 sul fondo, a volte persino la fatica e la paura.

La vita, però, è sempre una questione di passione e quando scorre nelle vene, è bello vivere. Molti anni fa, non ricordo come, venni a sapere che nel lato occidentale del Lago di Como si poteva visitare un relitto sommerso, da sempre noto ai pescatori locali, ritrovato dai subacquei intorno al 1980. Ero fresco di brevetto e riuscii a convincere gli amici ad andare a cercarlo. Le indicazioni erano sommarie e l’attrezzatura da Mar Mediterraneo ma il desiderio di trovarlo era incontenibile. Era metà settembre, il periodo decisamente meno indicato per un’immersione al lago su un fondale sabbioso: in questo lago, infatti, la proliferazione delle alghe, la terra e le piante portate dai fiumi possono creare una specie di tappo che parte dalla superficie e arriva fino a 40 metri di profondità. Nel mezzo tutto diventa invisibile, di un colore che spazia dal verde bottiglia al nero più totale.

Eravamo cinque subacquei ma durante la prima immersione ci perdemmo all’istante, rimanendo in due. Risaliti ritrovammo gli altri. Rinunciare? Mai. Ci legammo quindi con una sagola, convinti che non ci sarebbero stati né pericoli né corrente. Fui io a trovare l’imbarcazione, dando una tremenda capocciata al fasciame, poi arrivarono i miei compagni. Non riuscimmo a distinguere molto, tranne le tavole, i cerchi di legno che sostenevano il telone che proteggeva il carico, costituito da piccoli sacchi bianchi che la fonte sosteneva essere di farina. Vidi un paio di belle bottatrici, entrambe stupite dei grossi animali neri che giravano sul fondo emettendo bolle.

Fu comunque bello scoprire il relitto di una barca sul fondo del lago. Occorreva, però, tornarci durante il periodo invernale, quando le acque diventano più limpide. Lo feci altre tre volte, sempre a gennaio, scoprendo, con una visibilità migliore, che non si trattava di una “Lucia” ma di una Gondola Lariana. Il Lago di Como, chiamato anche Lario, è stato per secoli la via naturale per il collegamento della Pianura Padana con le valli alpine e la Svizzera. Le strade costruite sulle sponde del lago sono assai recenti: quella orientale fu costruita alla fine del Settecento da Maria Teresa d’Asburgo, mentre quella occidentale è stata completata addirittura agli inizi del secolo scorso.

Naturale, quindi, che la via principale di collegamento di merci e persone fosse costituita dal lago stesso, solcato da un gran numero di imbarcazioni a vela o a remi. Il trasporto era favorito anche dai due venti principali che si alternano sulle sue acque: una brezza che dal mattino presto soffia da nord, chiamata Tivano, sostituita verso mezzogiorno dalla Breva, un vento costante e più caldo che proviene dalle pianure meridionali. Le acque del lago erano quindi colme di battelli di legno, che creavano una fitta ragnatela di traffici: c’era il grande comballo e le tradizionali barche con i “cerchi”, come la gondola, il navet e il batél (la Lucia).

Il metodo di costruzione era simile per tutte le imbarcazioni tradizionali lariane, con le tavole di castagno, robinia o frassino che venivano sgrossate e poi accostate e “cucite” con dei chiodi passanti da una all’altra, facendo una specie di graffa chiamata “cusidura“. Una volta creato il fondo leggermente incurvato, venivano poste le ordinate e poi il fasciame, che veniva calafatato e impeciato dentro e fuori. Le decorazioni erano molto sobrie e l’imbarcazione rimaneva nera per la pece. Tra le varie tipologie vi era il navet, barca da pesca che poteva raggiungere i 7/8 metri di lunghezza, il grande comballo per il trasporto di merci lungo anche 28 metri e il batél lungo 6 metri, che prese il soprannome di “Lucia” dall’imbarcazione dei Promessi Sposi di Manzoni. Parecchi scafi di questo tipo sono sopravvissuti e con essi vengono addirittura organizzate delle regate sul lago.

L’ultima tipologia era quella della più grande barca con i cerchi, che nella parte di poppa sostenevano un tendone per proteggere merci e persone dal sole o dalle intemperie: la gondola lariana. Aveva fondo piatto, fianchi rotondi svasati, una prua sottile e una poppa rigonfia e rotonda. La sua lunghezza variava tra i 15 e i 20 metri per 5 di larghezza e poteva portare un carico variabile tra i 120 e i 1.000 quintali di merci varie. Era mossa da una grande vela rettangolare di canapa e da lunghi remi, utilizzati nei momenti di bonaccia o per l’approdo, che avveniva direttamente sulla riva, poggiando con lo scafo rinforzato da un’asta chiamata “dolfìn”, che fungeva da pattino, e poi legando la barca ad un anello. E per spostare il carico si passava sulla “panca”, un lungo asse di legno. Era la barca da trasporto più diffusa del lago e trasportava ogni tipo di merci. La Lucia di Tremezzo, in realtà, non è un batél ma proprio una di queste.

La data dell’affondamento non è certa ma in molti ipotizzano l’inverno a cavallo tra il 1910 e il 1911. A causare l’incidente sarebbe stato uno spostamento del carico o, più probabilmente, una tempesta improvvisa causata dai venti che talvolta giungono dalla Valtellina: può sembrare strano a chi non conosce queste acque ma a volte il vento e le onde fanno davvero paura nel Lago di Como. Arrivare al punto di immersione è semplice. Da Como si segue il percorso della strada statale Regina che costeggia il lago, fino ad arrivare a Tremezzo. Entrati in paese, si superano un grande albergo e una villa, fino a giungere alla chiesa di San Lorenzo, dove si trova un comodo parcheggio.

Guardando il lago, sulla sinistra si trova una scalinata che porta alla riva e al porticciolo, dedicato ai piccoli natanti. Fate attenzione se volete immergervi sulla Lucia presso il porticciolo: occorre chiedere un permesso, altrimenti si rischia di prendere una multa salata, inconveniente a me capitato in un’altra località lacustre. Qui mi sono immerso, tranne la prima volta, sempre durante il mese di gennaio, quando non ci sono diportisti. Non sapevo del divieto, avevo il mio pallone e sono sceso senza conoscere il problema. Io vi ho avvisati.

Dopo aver indossato tutta l’attrezzatura sulla riva, si scende sott’acqua alla fine del pontile galleggiante, fino a trovare un corpo morto posto alla profondità di 16 metri circa. A questo punto occorre scendere intorno ai 20 metri, proseguendo con una rotta di circa 30 gradi. Quando feci l’ultima immersione, mi sembrò molto più vicina al porticciolo, forse allungato per aumentare la capienza d’ormeggio. Difficoltà particolari non ve ne sono, a parte la cronica mancanza di visibilità dovuta anche al fondo sabbioso (tra i 3 e i 12 metri a gennaio in un’occasione eccezionale), il freddo dell’acqua durante il periodo invernale (6/7 gradi, a causa dei quali è obbligatorio l’uso della muta stagna) e la possibile presenza di reti a cui fare attenzione.

Lo scafo ha una lunghezza di poco meno di 20 metri, con una larghezza massima di 5,20 e con le murate alte circa 1,80. Le condizioni del relitto, che poggia sul lato sinistro, sono ottime: il legno di castagno si è indurito e non sfaldato, grazie anche all’ottimo lavoro di impermeabilizzazione effettuato all’epoca. Bellissima la prua filante ma ancora di più la tonda poppa, con l’imponente timone che si chiamava “guernàc“. Degli originali tre archi che sovrastavano la parte poppiera, ancora due sono al loro posto, mentre il terzo giace all’interno della barca, così come il grande albero, abbattuto sul lato di sinistra. L’interno è pieno di piccoli sacchi bianchi, che, secondo la mia fonte di molti anni fa, dovevano contenere farina, tuttavia, sono duri come cemento e incollati l’uno all’altro, facendo piuttosto propendere per un contenuto di gesso o di calce.

Essendo situata su un fondo sabbioso, la Lucia di Tremezzo è sempre piena di vita: grosse bottatrici, piccole spugne bianche d’acqua dolce, molti molluschi e grandi banchi di persici sono ben visibili dentro e fuori il relitto. L’immersione, se svolta con buona visibilità, è semplice e assai affascinante. Occorre, però, scegliere la stagione giusta ed essere fortunati. La volta in cui portai la macchina fotografica non lo fui particolarmente ma i ricordi migliori sono quelli che si portano nel cuore. E se vi piacciono le storie di marinai, navi e relitti, vi rimando alla lettura di “Storie Sommerse – Esplorazioni tra i relitti“, edito da Il Frangente di Verona, con 25 storie di mare, viaggi e immersioni.

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