Bruno Veronese: un pioniere dello yachting
Bruno Veronese si è distinto non solo per aver progettato un notevole numero di yacht ma anche per l'eleganza del tratto, che rendeva facilmente riconoscibili le sue creature
Bruno Veronese si è distinto non solo per aver progettato un notevole numero di yacht ma anche per l'eleganza del tratto, che rendeva facilmente riconoscibili le sue creature
Nel panorama della vela italiana del secondo dopoguerra Bruno Veronese (1911-1991) si distinse non solo per aver progettato un notevole numero di yacht ma anche per l’eleganza del tratto, che rendeva facilmente riconoscibili le sue creature. Negli anni Cinquanta e Sessanta Veronese, insieme al veneziano Artù Chiggiato, fu infatti l’interprete, spesso originale, delle nuove tendenze progettuali che pervenivano dal mondo anglosassone. Nel suo modo di concepire l’andar per mare, le forme di uno scafo non erano scelte per raggiungere il massimo della velocità ma per permettere all’armatore di svolgere crociere sicure e confortevoli, tenendo sempre d’occhio l’eleganza delle linee e l’economia della costruzione.
Veronese non dimenticò mai di essere innanzitutto un marinaio e quindi volle progettare imbarcazioni che offrissero buone doti di tenuta e facilità di manovra: caratteristiche che rendono possibili crociere impegnative anche a yacht di dimensioni limitate e che quindi possono avvicinare alla vela chi non dispone di grandi fortune. Così Veronese divenne uno dei precursori della diffusione dello yachting e svolse un ruolo importante in un Paese come il nostro, dove il numero di praticanti di questo sport era nettamente inferiore a quello di altre nazioni europee. Se infatti fino ad allora l’Italia aveva espresso progettisti di scafi da competizione di notevole livello, da Baglietto a Costaguta, lo yachting rimaneva pur sempre un’attività riservata a una ristretta élite.
Nel corso della sua opera Veronese ha sempre sottolineato l’importanza del “bilanciamento” degli scafi. “Significa timone leggero – spiegava lui stesso – cioè una barca che non ‘tira’ sotto qualunque angolo di sbandamento, anche con vento a raffiche. Uno yacht è bilanciato quando, sotto qualunque combinazione di vele, una volta tesate a segno le scotte, se ne va per conto suo, senza o quasi che sia necessario toccare più il timone”. In fase di progettazione un risultato del genere si ottiene cercando di far coincidere (o per lo meno avvicinare) il centro di carena a scafo diritto con quello a scafo inclinato, per esempio a 25 gradi. Insomma, occorre che vi sia una certa equivalenza di volumi tra il corpo poppiero e quello prodiero dell’opera viva dello scafo.
Dalla matita di Veronese sono usciti progetti come Coppelia, uno yacht di 9,40 m che stava in rotta da solo, ed il Melanea di 12,80 m, che anche nelle andature di bolina si poteva tenere in rotta con un dito sul timone. Erano doti dovute all’influenza di personaggi come T. Harrison Butler (1871-1945), un medico oculista britannico che, da progettista dilettante, disegnò molti piccoli yacht da crociera nel corso degli anni Venti e Trenta. Il segreto dei suoi yacht, che erano sempre docili al timone ed equilibrati a tutte le andature, derivava dall’applicazione della teoria metacentrica, che era fondata sul calcolo delle aree delle sezioni immerse dello scafo, perché, col variare dello sbandamento, se ne modificasse il meno possibile l’equilibrio statico. Ne risultavano barche che “tenevano la rotta da sole”, anche se non c’era nessuno al timone, una dote preziosa in un’epoca in cui i timoni automatici dovevano ancora vedere la luce.
Tra l’immediato dopoguerra e gli anni Ottanta gli yacht realizzati da Veronese furono più di una trentina e molti altri progetti rimasero nel cassetto. Nel 1949 la sua prima realizzazione, per uso personale, fu L’Euridice, uno scafo a clinker di 6,70 metri, ma il suo disegno più popolare fu il Flora, che nacque da un concorso indetto dal giornale britannico Glasgow Herald: il bando richiedeva uno yacht che fosse adatto alla navigazione lungo la difficile costa Ovest della Scozia, che a bordo potesse ospitare quattro persone ed il cui costo (ad esclusione dell’arredamento interno e del motore) non superasse le 1.000 sterline. Nel disegnarlo Veronese mise insieme le caratteristiche del suo yacht ideale. Dal Flora, quindi, nel 1963 Veronese derivò per suo uso personale la seconda L’Euridice, uno yacht di 9,40 metri fuori tutto le cui linee eleganti venivano sottolineate dalla cura dei particolari e dall’opera morta, trattata a vernice. Le sue dimensioni ci dicono come sia cambiato il modo di giudicare gli yacht: oggi una barca del genere è considerata “fuori mercato” a causa delle sue sistemazioni interne spartane.
Se nel mondo dello yachting l’esigenza di avere delle barche a “misura d‘uomo” viene da lontano, questa tendenza rimase a lungo secondaria: si affermò solo tra pochi appassionati, che presero gusto nel manovrare in modo autonomo uno yacht senza dover dipendere dall’aiuto dei marinai. Bisogna tener presente che nel corso dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento chi avesse adottato un simile comportamento, oggi del tutto normale, correva il rischio di passare per eccentrico, perché allora per un gentiluomo il lavoro manuale era considerato disdicevole. D’altra parte, in quei tempi si poteva sempre contare su numerosi servitori e marinai. Fu nel 1872 che nell’Essex nacque il Corinthian Yacht Club, riservato a coloro che volevano praticare in prima persona tale sport, ma ben pochi armatori adottarono questo approccio.
Solo agli inizi del Novecento la filosofia dell’andar per mare in piena autonomia iniziò ad essere promossa, per merito di un personaggio affascinante come Albert Strange (1855-1917). Autodidatta, egli cominciò a produrre disegni di imbarcazioni in epoca vittoriana, un periodo nel quale l’interesse era concentrato soprattutto sulle “macchine da regata”. Strange fu innanzitutto un artista, che ci ha lasciato deliziosi acquerelli che traevano ispirazione dalla natura costiera: per lui le imbarcazioni minori erano il mezzo per raggiungere, in un modo accessibile a molti, gli scenari marini e goderseli in santa pace. I suoi yacht di sette, otto metri di lunghezza non sono pensati per la velocità o per l’evasione in terre lontane ma per scoprire la natura che sta sulla “porta di casa”.
Strange collaborò a lungo con le maggiori riviste del tempo e così le sue idee ebbero modo di diffondersi ampiamente. Il suo messaggio fu che scafi di modeste dimensioni, che potevano essere portati anche in solitario, permettevano ad un gentiluomo di passare confortevolmente alcuni giorni a bordo senza temere il mare. Era una novità per quei tempi, perché allora si pensava che per vivere su uno yacht fossero necessarie unità di grandi dimensioni, che naturalmente necessitavano di parecchi marinai.
Già nel 1950 Veronese aveva progettato Selene, uno yacht di 12 metri pensato per le navigazioni estive nel Mediterraneo, caratterizzate da venti leggeri, e che quindi montava un motore piuttosto potente. Questa esperienza lo porterà in seguito a cimentarsi nella progettazione di una serie di veloci motorsailer, come il Val II°, il Nausicaa di 16 metri con scafo in acciaio saldato, costruito a Sturla, il Val III° di 21 metri ed infine il Ro.Ro. IV, varati a Pisa. Erano scafi innovativi, di dislocamento relativamente leggero e di pescaggio contenuto, che mettevano a frutto l’evoluzione dei motori navali, che erano diventati più compatti e più potenti. In questi progetti si intravede l’influenza degli studi di Jack Laurent Giles, tesi a realizzare dei motorsailer che potessero utilizzare al meglio la propulsione velica.
Giudicando l’attività di Veronese in prospettiva, appare chiaro quanto fosse avanti rispetto al suo tempo e come il suo modo di concepire lo yachting abbia anticipato la diffusione della vela da crociera, che si verificò a partire dagli anni Settanta. Se non può essere definito un progettista rivoluzionario, seppe però trarre ispirazione dai migliori modelli del suo tempo. In un suo testo, “Yacht Progetto e Costruzione”, questa filosofia è affermata esplicitamente quando dice: “In pratica tutte le barche che si disegnano derivano, almeno come concetto, da qualche altra barca esistente: è cosa che succede in tutti i campi ed è giusto che sia così perché, se ogni volta si dovesse cominciare da zero, al mondo non esisterebbe il progresso. Il caso più comune è che si voglia fare uno yacht, del genere di un altro già esistente e che piace, ma che sia o un po’ più lungo o un po’ più corto, o più largo o più stretto, o con diverse proporzioni o con diverso piano di velatura, oppure con diverse sistemazioni interne, ecc.”.
Buona parte del lavoro di progettazione di Veronese rientra in quello che oggi si definisce come “classic yacht”. Ma cosa significa veramente “classico”? La ben nota risposta di Italo Calvino a questo quesito, per quanto riguarda la letteratura, è “un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Se questo è vero, lo è anche per le barche: le linee di uno yacht classico sembrano collocarsi in una dimensione fuori dal tempo e così, anche dopo tanti anni, continuano ad affascinarci per il perfetto equilibrio delle loro forme
Veronese ha infine avuto una parte importante nell’attività di ampliamento delle basi della cultura marinara del nostro Paese. Con lo pseudonimo di “Capitano Black” ha collaborato assiduamente con le più importanti testate italiane, mentre suoi contributi sono apparsi su Yachting World, Yachting Monthly e Mariner’s Mirror. Scrittore brillante, diffuse poi in Italia il dibattito sulla nautica minore, che in quegli anni si imponeva nel mondo anglosassone. Questo approccio divulgativo lo si può ritrovare anche nel suo ultimo testo, Yacht Progetto e Costruzione, scritto con il dichiarato proposito di semplificare la metodologia di progettazione e di renderla accessibile ai semplici appassionati. Veronese riteneva infatti che i concetti di base di questa disciplina potessero essere afferrati anche da chi non è del mestiere. Il suo modo di lavorare era originale: si metteva all’opera tracciando linee su un tavolo da disegno di soli 100 centimetri per 70, dimensioni scelte per avere una visione immediata delle proporzioni dello scafo. Se poi il disegno non stava nei limiti della sua “tavoletta”, non si faceva scrupolo a ridurne la scala. Privilegiava quindi la visione d’insieme, il colpo d’occhio che permette di giudicare l’equilibrio delle linee.
Giovanni Panella
