Pavlopetri, la città inabissata del Peloponneso

Nel mar Egeo, tra la Grecia e l'isola di Cervi, gli archeologi hanno scoperto i resti di una civiltà antecedente ai miti omerici

Una città perduta in fondo al mare. Una città con tanto di case, strade, palazzi. Una città che risale ad una remota civiltà, tanto lontana nel tempo da essere stata dimenticata anche dai nostri miti più antichi. Quanti libri, film o fumetti ci hanno appassionato e regalato emozioni seguendo questa traccia narrativa? Il mito dell’Atlantide sommersa risale agli albori della civiltà dell’uomo e si sempre è rivelato un fertile terreno per l’immaginazione di innumerevoli romanzieri, sceneggiatori, disegnatori, registi.

Così è stato e, probabilmente, sempre sarà, dai tempi di Gilgamesh a quelli di Steven Spielberg. Ma davvero si tratta solo di poetiche fantasie? Ebbene no! Le città perdute, inghiottite dal mare e recentemente scoperte grazie alle nuove potenzialità dell’archeologia subacquea, esistono davvero. E la più famosa e ben conservata di tutte è proprio nel nostro Mediterraneo, nei mari di Grecia. Il suo vero nome, nessuno lo sa. Gli archeologi la chiamano Pavlopetri.

Più esattamente Pavlopetri – che in greco significa Paolo e Pietro – è il nome della semisconosciuta isoletta che sorge vicino al ritrovamento. Siamo ad un tiro di schioppo dalla costa di Pounta, il bordo più meridionale del “dito” più a sud di quella bizzarra penisola, i cui contorni sembrano disegnare una mano aperta, che è il Peloponneso.

Nessuno si ferma a Pavlopetri. Solo il traghetto che porta all’isola che noi chiamiamo Cervi (e i greci Elafonisos) ci passa vicino nel suo ricorrente andare. Nemmeno i pescatori ci si fermavano volentieri nelle sue acque. Sapevano bene che, sotto quel mare che ti abbaglia di azzurro, c’era qualcosa di strano. Qualcosa che aveva il brutto vizio di trattenere e danneggiare le loro reti.

Come spesso accadde, fu il caso a rivelare all’umanità intera cosa fosse quel “qualcosa”. Nel 1967 un gruppo di scienziati dell’Institute of Oceanography dell’Università di Southampton, guidati dall’oceanografo e subacqueo inglese Nicholas Flemming, stava svolgendo nella zona delle ricerche sulle variazioni di dislivello del Mediterraneo e decise di scendere proprio a ridosso dell’isolotto di Pavlopetri per piazzare sul fondale della strumentazione scientifica.

Gli occhi gli devono aver sbattuto sulla maschera quando si accorse di trovarsi nel bel mezzo di una città sommersa! Una città, la cui esistenza non era ipotizzata nemmeno dei miti pre-omerici.

Le mura di Pavlopetri secondo una ricostruzione digitale

Così doveva essere Pavlopetri, secondo un documentario della Bbc

Quella che i giornali dell’epoca chiamarono la Pompei subacquea  divenne presto una palestra per le prime spedizioni scientifiche della  disciplina scientifica che si stava forgiando in quegli anni: l’archeologia subacquea. Furono gli archeosub inglesi, prima dell’Università di Cambridge e poi guidati dal dottor Jon Henderson dell’Università di Nottingham a completare la mappatura del sito.

Gli scienziati riconobbero almeno 15 edifici di grandi dimensioni, probabilmente di uso pubblico, in calcare e roccia arenaria, tutti costruiti senza malta, oltre ad una rete stradale esattamente pianificata, un sistema di rifornimento idrico e molte case signorili con tanto di giardino e cortile interno che, con ogni probabilità, si innalzavano su due piani. Il tutto, sparpagliato per un sito che, perlomeno sino ad ora, ha superato gli 80 mila metri quadrati. Pressapoco otto campi di calcio.

Chi abitava quella città? Jon Henderson e la sua equipe fanno risalire il sito a circa 5 mila anni fa, all’età del bronzo. Ma l’aspetto più interessante del ritrovamento, spiegano studiosi dell’Università di Nottingham, è che Pavlopetri non era affatto una semplice città di pescatori ma, come ha dichiarato lo stesso Henderson all’Huffington Post, “una vera e propria New York dell’epoca”, un grande fulcro di commercio portuale abitato da una società complessa composta di artigiani, commercianti, marinai, agricoltori, politici e funzionari.

La città prosperò sino all’anno 1000 avanti Cristo, quando fu abbandonata in seguito a tre violente scosse di terremoto che devastarono l’area sino a cambiare la morfologia del basso Peloponneso, spalancando le porte al mare. Gli scavi sul sito sono tuttora in corso e, purtroppo, ai semplici subacquei non è ancora consentito immergersi, anche se alcuni diving stanno trattando per realizzare dei percorsi guidati aperti a tutti.

La segreta speranza degli archeologi è di trovare qualche tavoletta con qualche scritto sopravvissuto all’erosione delle acque e del tempo. La città doveva avere un porto commerciale di così grandi dimensioni che non è pensabile che fosse gestito senza qualche forma di scrittura, quantomeno per contabilizzare il carico – scarico. E questa costituirebbe la prima forma di scrittura ritrovata nel nostro Vecchio Continente. Un continente che, con ogni probabilità, è più vecchio di quanto osassimo supporre.

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